Refuso

Ieri ho passato parte del pomeriggio in un posto che ho trovato semplicemente incantevole. Ci ho trascorso un paio d’ore scarse e per lo più parlando di lavoro. Anzi, per la precisione: ascoltando di lavoro, dato che il mio interlocutore era un fiume in piena.

È un quartiere di Verona poco battuto dai turisti e questo lo ha conservato vivo e vero. Non dico altro. Confido nel fatto che qualcuno prima o poi legga questo post e commenti con la soluzione. Prima o poi. Come quel messaggio nella bottiglia che è stato ritrovato qualche giorno fa, dopo avere viaggiato per i sette mari quasi cent’anni.

Quelli come me, quando si trovano in un contesto nuovo, vengono bombardati da una quantità insostenibile di dettagli irrilevanti che si affollano nel collo di bottiglia dell’attenzione passando attraverso gli occhi, le narici, la pelle…

Così di un contesto nel suo insieme e della sua bellezza peculiare non resta molto – quelli come me hanno bisogno di tornare almeno un paio di volte per cogliere il senso generale delle cose – ma, al contrario, l’attenzione si fissa ostinatamente su un dettaglio e non lo molla, nemmeno dopo molte ore.

Il dettaglio ridicolo che ha monopolizzato la mia attenzione oggi è un refuso. Ma non un refuso come tutti gli altri: un refuso scritto indelebilmente nella pietra e corretto con il rimedio effimero di un filo di vernice nera.

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L’errore scritto nella pietra durerà un numero incommensurabile di anni più della correzione posticcia che cerca di nasconderlo. Malissimo.

Cose di questo genere mi fanno pensare: sono segni con un loro particolare significato involontario. E spesso trasmettono qualcosa di più grande. Una lezione. Su come il mondo non smetta mai di parlarci di qualcos’altro. Anche solo per errore.

 

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