L’incidente

I lampeggianti dell’autoambulanza fanno roteare silenziosamente le loro orbite blu cobalto. La sirena spenta è il segnale universale e inequivocabile che non c’è più nessun motivo per avere fretta. L’emergenza è finita e questo può volere dire solo due cose: che la vittima sdraiata sull’asfalto del tunnel non è in condizioni critiche, oppure che se n’è già andata all’altro mondo.

Ad ogni giro del rotore elettrico da 12V i lampeggianti proiettano sulle pareti scure del tunnel i profili dei veicoli incolonnati e le sagome di una folla di persone disposte in silenzio attorno al corpo immobile di Riccardo. In quel turbinio di lampadine al tungsteno le immagini fatte di luce e di ombra vengono pennellate sulle pareti ricurve del tunnel e sbiadiscono ciclicamente ad ogni giro del fascio di luce. E questa specie di giro di giostra si ripete, diciamo, qualcosa come cento volte al minuto, secondo più, secondo meno. I lampeggianti sono almeno quattro e questo genera un ammaliante effetto grafico che distorce i contorni delle ombre, esplodendoli e ricomponendoli in base all’inclinazione di questa o di quella lampada.

L’effetto finale è di tutto rispetto e ricorda uno di quei magazzini teatrali dove puoi trovare decine di sagome accatastate contro un muro, sovrapposte senza alcuna cura le une sulle altre, avvolte nella penombra e sbiadite dalla polvere. Oppure illuminate da una vecchia lampadina fioca che pende da un lungo filo elettrico, dondolante per via di invisibili correnti d’aria.

Nel punto esatto in cui Riccardo è stato adagiato a terra, supino e incartato nella coperta isotermica come una pralina di cioccolato, l’operatore di primo soccorso armeggia sopra di lui senza rispondere alle domande che gli piovono da ogni direzione: è morto? è vivo? di chi è la colpa? quando lo portate via? quando possiamo rimetterci in viaggio? Il traffico nel tunnel è interrotto da almeno quaranta minuti e non ci sono strade alternative per raggiungere il posto di lavoro, l’ufficio di riscossione tributi dell’INPS, la casa di zia Ninì, il motel a ore dove Talia aspetta già da almeno 10 minuti e tutte le altre destinazioni di quei viaggiatori fermi ad aspettare contro la loro volontà.

Dentro a tutto quel brusio, dentro al silenzio delle sirene e dentro alla coltre sottile di smog che ristagna stabilmente nell’aria di quel tunnel trafficatissimo, risuona improvvisamente la melodia di una sveglia, una di quelle suonerie che si impostano sul cellulare e che si finisce per avercela tutti uguale, perché nessuno ha mai il tempo o la voglia di cambiarla con qualcosa di più originale.

Riccardo risponde a quello stimolo sonoro con uno scatto agilissimo: si mette seduto, infila la mano destra nella tasca dietro dei pantaloni, sfila il cellulare e spegne la sveglia.

L’abitudine di farsi ogni giorno quei ventitré minuti esatti di siesta dopo la pausa pranzo e di interromperla esattamente alle 13:49 se l’è presa da almeno due anni ormai. Lo aiuta a smaltire lo stress della mattinata per poi ricominciare la seconda metà delle sue giornate lavorative con tutta la carica e la pazienza necessarie.

Come ogni giorno, quindi, Riccardo controlla l’ora e si assicura di non avere sforato: se tutto è andato come deve andare, gli restano 11 minuti esatti per sciacquarsi la faccia, prendere il caffè al distributore automatico in corridoio e tornare in postazione pronto per ricevere le prime telefonate alle 14:00 in punto.

Però oggi c’è qualcosa che rende decisamente impossibile rispettare i tempi e i modi della sua consolidata routine.

Nell’anticamera dell’ufficio dove, come ogni giorno, si è sdraiato sul vecchio divanetto Ikea per il riposino di rito, sulle pareti piene di frame motivazionali e attestati di frequenza c’è una folla di ombre che lo circondano e che producono un fastidiosissimo brusio.

Dio che cosa inquietante!

Le ombre sembrano proiettate da una luce bluastra che proviene da qualche punto imprecisabile della stanza e che ruota rapidamente dandogli un senso di vertigine e di nausea. 

Che cosa cazzo sta succedendo, si chiede Riccardo con gli occhi sbarrati e i peli rizzati sugli avambracci.

Sopra la sua testa, esattamente al centro del soffitto, un’ombra più invadente delle altre sembra cercare di stabilire un contatto diretto con lui e lo incalza di domande in una lingua incomprensibile.

Calma, Riccardo. Deve trattarsi di un attacco di panico. Non ti è mai capitato prima, lo so, ma dev’essere proprio un fottuto attacco di panico, che cosa vuoi che sia, sennò? Perché dai, lo vedi anche tu che questa situazione assurda è tale e quale ai racconti che ti hanno fatto tuo cugino Nicola e tutti gli altri svitati che soffrono di quel tipo di problema. Quindi non ti agitare, respira profondamente e cerca di riprendere il contatto con la realtà, cerca di essere lucido, respira… respira… respira…

L’ombra del soffitto, quella che si protende da sopra in maniera così insistente, smette di parlare la sua lingua aliena e comincia ad armeggiare con alcuni misteriosi utensili, sempre fatti d’ombra, che estrae da un parallelepipedo più nero di tutto il resto e che, per forma e dimensioni, potrebbe essere la cassetta degli attrezzi di un idraulico o la valigetta di un medico. L’ombra si porta alla bocca un oggetto dalla forma vagamente cilindrica e ricomincia a parlare: stavolta le sue parole sono chiare e perfettamente comprensibili, anche se il suono prodotto da quel congegno misterioso le rende robotiche e metalliche.

“Riccardo, mi senti? Riesci a capire quello che dico, Riccardo?”

“Sì, cazzo, cosa succede? Chi sei? Chi sono loro?”

“Riccardo, non ti agitare e respira profondamente, non è successo niente di grave.”

“Come niente di grave? Ma chi siete voi? Cosa volete?”

“Riccardo, calmati e respira, devi essere felice, oggi è uno dei giorni più fortunati della tua vita, tu mi puoi sentire e stai respirando e devi solo calmarti ed essere felice e ringraziare il cielo per questo dono che ti ha fatto.”

“Ma perché mi parli così? Ti prego, dimmi cosa succede, mi state spaventando!”

“Niente di grave, te lo ripeto, vedi che mi capisci e io ti capisco? Questa vuol dire che sei vivo e che non ti devi preoccupare di niente, respira, si è trattato solo di un piccolo incidente.”

“Un incidente? È per questo che ci sono le luci blu e tutta la gente attorno? Ma dove sono io adesso? E quando è successo?”

“Riccardo, tu vedi le persone attorno a te?”

“Sì… no, vedo solo le loro ombre sul muro.”

“E le luci blu? Le vedi le luci blu dei lampeggianti? L’ambulanza, vedi anche quella?”

“Sì, ma non ci sto capendo niente, cosa cazzo mi succede? Ho avuto un incidente?”

“Sì, c’è stato un incidente e tu sei rimasto coinvolto, ma non ti devi agitare, è tutto sotto controllo adesso.”

“Devo avvisare Katia, dove mi portate? Devo avvisarla subito cazzo. Cosa mi sono fatto? È grave?”

“Ma nooo Riccardo, non c’è niente di grave, niente di cui ti devi preoccupare, c’è stato un incidente e tu ora sei qui davanti a me che mi parli e mi ascolti, quindi va tutto bene, va tutto benissimo, ok? Respira lentamente e profondamente.”

“Ok, ok, mamma mia… mi sdraio di nuovo, ho paura di svenire.”

“Bravo Riccardo, sdraiati e tieni i piedi alzati: allunga le gambe e mettici sotto un altro cuscino, se ce la fai. Ti aiuterei io, ma tu capisci, non posso.”

Riccardo scatta di nuovo seduto e poi, incapace di controllarsi oltre, si mette ritto in piedi in mezzo alla stanza, immobile e trasfigurato come il totem di uno di quei vecchi western in bianco e nero.

Cerca a modo suo di restituire un senso a quella situazione incomprensibile e completamente incoerente. Dunque, si è svegliato nella solita stanza e alla solita ora o almeno così gli era sembrato. Poi qualcuno lo ha confusamente convinto di essere vittima di un incidente e di trovarsi da tutt’altra parte, nel bel mezzo di un tunnel, circondato da curiosi e ambulanze, che a dire il vero sembravano però solo ombre bluastre proiettate sui muri.

I casi, quindi, sono solo due: o lui è davvero steso da qualche parte sull’asfalto e l’impatto ha completamente mandato in tilt le sue facoltà mentali, oppure si trova effettivamente nell’anticamera del suo ufficio e gli ha completamente dato di volta il cervello – e nessuna delle due ipotesi lo fa sentire meglio.

L’ombra sul soffitto si sbraccia, gli raccomanda di tornare seduto e gli dice di aspettare solo un attimo. Poi, scivola via lungo la parete con i frame motivazionali e scompare dietro tutte le altre.

All’improvviso la porta che separa l’anticamera dall’ufficio si apre e compare la figura di Stefano, il socio più anziano dell’azienda per cui lavora.

“Esci subito Riccardo, ho solo pochi minuti per spiegarti tutto.”

Riccardo lo segue oltre la porta e Stefano gliela chiude alle spalle.

“Scusami ma non posso parlare lì dentro, davanti a tutti gli altri. Riccardo, la riconosci la mia voce?”

No, non è per niente la voce di Stefano e quello diventa improvvisamente l’ennesimo colpo basso al suo equilibrio mentale, ormai completamente sottosopra. Stefano lo guarda dritto negli occhi e continua a parlargli rapidamente, mangiandosi le parole, dicendo cose che Riccardo fatica a mettere insieme in concetti di senso compiuto. La voce non è quella del suo vecchio capo, Stefano gli sta parlando co la voce di suo padre Antonio.

“Papà?”

“Sì, sono io Riccardo, ma devo fare in fretta!”

“Papa!? Sei davvero tu?”

“Sì, tesoro, sono davvero io.”

Riccardo si getta al collo di Stefano e lo stringe forte, senza più riuscire a parlare e con gli occhi pieni zeppi di grosse lacrime dense.

“No no no! Non mi puoi abbracciare Riccardo, comportati in maniera normale! Ho ancora pochi minuti, devo tornare nel tunnel e dire a tutti che stai bene e che possono finalmente tornare alle loro auto e riprendere il viaggio!”

“Ma papà, che cos’è questa pazzia?”

“Nessuna pazzia, amore mio, solo un piccolo incidente, te l’ho detto! Stavo sorvegliando il viaggio di tutte quelle anime verso le loro destinazioni e tu all’improvviso ti sei infilato non so come dentro la procedura e li hai bloccati tutti, te ne devi andare via da lì, Riccardo!”

“L’incidente? Non sono morto? Non capisco! Ma tu dove sei ora?”

“Dove vuoi che sia Riccardo, sono dall’altra parte, è un bel posto, devi stare tranquillo.”

“Pensavo che non avrei mai più sentito la tua voce, sto così male papà, mi manchi così tanto…!”

Stefano si guarda attorno per assicurarsi di non essere visto, poi afferra Riccardo per le spalle e lo stringe forte a se, stampandogli un dolcissimo bacio sulla fronte, come faceva ogni sera quand’era bambino, subito dopo avergli letto la favola della buonanotte. Poi lo allontana da se, sempre tenendolo per le spalle, e lo guarda dritto negli occhi con uno sguardo pieno di ricordi lontanissimi.

“Riccardo io torno di là, non posso più aspettare, si sta facendo troppo tardi per me… Ti chiedo solo una cosa importante: non raccontare niente alla mamma di questa cosa, non parlarle assolutamente di me, per carità, anzi non raccontare niente a nessuno, non voglio che tu ti metta nei guai per questo piccolo incidente, promettimelo, non farne parola con nessuno, con nessuno, va bene?”

Riccardo guarda suo padre negli occhi e una quantità incalcolabile di nodi si scioglie dolcemente nel suo cuore. Anche il suo corpo sembra ritrovare improvvisamente una pace che non provava più da quasi cinque anni, quando Antonio se n’era andato improvvisamente e proprio per un bruttissimo incidente d’auto nel cuore di un maledetto tunnel. Era uscito di casa sorridendo a tutti e vi era tornato senza vita dopo meno di due giorni, con il viso composto in un’espressione di fredda e artificiosa serenità. Non era più lui, senza la sua anima, solo questo pensiero era rimasto di quei giorni orribili nel ricordo di Riccardo.

Stefano lo guarda ancora fisso negli occhi, ma la sua espressione si è leggermente indurita, una contrazione delle sopracciglia fa affiorare improvvisamente un’ombra di sottile preoccupazione.

“Riccardo, stai bene?”

“Sì, papà, sto bene…”

“Riccardo, sono Stefano, e sono anche le due e un quarto, il cliente ti aspetta online, sei in ritardo… Ma sei sicuro di stare bene?”

Riccardo spalanca gli occhi, apre la porta dell’anticamera e scopre che le ombre di prima sono completamente scomparse. Resta pochi secondi come sospeso, la bocca socchiusa e la fronte corrucciata, poi si sistema al volo il colletto della camicia e si allontana rapidamente in direzione della postazione di lavoro. Mentre corre via risponde evasivamente a Stefano, senza nemmeno voltare le spalle, senza guardarlo in faccia:

“Sì, scusami tanto Stefano, lo raggiungo immediatamente! Sì, sì, sto bene, certo che sto bene, stavo riposando e non ho sentito la sveglia, devo avere tolto la suoneria per sbaglio. Grazie per avermi chiamato, è stato solo un piccolo incidente, non succederà mai più, solo un piccolo incidente”.

Condivido